Una vita torinese
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Descrizione Commenti dei lettori |
Giovanni Gastaldi viaggia nel mondo. Ma ha radici torinesi profonde. Una città che vive e attraversa da decenni, conducendo autobus e tram.
Un'esistenza vissuta nella città della Mole, fra drammi familiari e intime gioie. Gastaldi narra la vita per quella che è, senza menzogne: un'infanzia con poco amore e tante botte. Una maturità giunta presto, forgiata da tragedie indicibili. Oggi, una vita normale, che, a leggere queste pagine appassionanti, è davvero una cosa straordinaria. Quarta di copertinaMia madre, così come mio padre, liquidava le mie marachelle di bambino con scariche di botte che mi lasciavano per morto. Per non farsi male alle mani sovente adoperava il cucchiaio di legno che, vi assicuro, faceva un male tremendo e, se alle volte si rompeva, lo ricomprava con i miei miseri soldarelli. Spesso i vicini di casa, impietositi dai miei pianti, suonavano il campanello per dirle di smetterla con tutte quelle botte. Lei rispondeva che si dovevano fare i fatti loro e che, come mi aveva fatto, così mi avrebbe ammazzato. A volte penso che, se avessi cinque centesimi per ogni legnata ricevuta in gioventù, sarei senz'altro una persona molto ricca. Ricordo un giorno in cui eravamo a tavola ed io mi trovavo al mio solito posto con mio padre alla mia sinistra e mia madre a destra, le spalle al balcone. Come al solito stavano litigando. Mia madre gli rimproverava di non essere abbastanza severo nella mia educazione. All'improvviso, e senza alcun motivo, mio padre mi mollò un manrovescio che mi fece letteralmente volare sul balcone, sedia compresa. Sbottò dicendo: adesso ti sembro abbastanza severo? Mi aveva colpito per compiacere mia madre. Si mise a sanguinarmi abbondantemente il naso. Era mezzogiorno. Alle sedici mi portarono all'ospedale, dove mi dovettero cauterizzare la vena. Naturalmente si erano raccomandati di non svelare il vero motivo del mio infortunio. Altro che telefono azzurro, che all'epoca non esisteva, neanche quello blu cobalto mi avrebbe salvato da quei due pazzi.Indice testualeIntroduzioneSogno, ma son desto Il collegio Dalla padella alla brace Il lavoro ovvero fine pena mai L'inizio della fine Crediamo di plasmare il nostro futuro E' finita Il riscatto Sull'amicizia Un lavoro particolare Grandi passioni Amare considerazioni Nonostante tutto Biografia dell'autoreGiovanni Gastaldi è nato a Rivoli (TO) il 19 gennaio 1961. Alla sua prima esperienza come scrittore, in questo libro narra la sua curiosa e singolare vita.Media voto:
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Franco
ha scritto:
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inserito: 13.11.2018 08:51
Non si tratta di un’autobiografia, più di un racconto di aneddoti della vita dell’autore, delle esperienze e della famiglia; l’esposizione (non sempre cronologica) di fatti concatenati come spiegazione e progressione alla sua “normalità”, avvenimenti che hanno contribuito a renderlo ciò che è ora, nel bene e nel male. La raffigurazione scritta, specialmente in determinati passaggi cruciali, svela la sua volontà di scacciare un’infanzia e un’adolescenza disorientanti. La lettura in alcuni passaggi, scuote di tristezze la mente, ma crea un rapporto emozionale di partecipazione con l’autore.
sandro d'ostilio
ha scritto:
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inserito: 20.08.2016 19:17
Libro fitto di insegnamenti morali e di verità totale. Avvincente come un giallo. Aspettiamo l'autore in storie meno autobiografiche.
anna maugeri
ha scritto:
![]() Voto:
inserito: 31.07.2016 18:29
Bello, da leggere tutto d'un fiato
la storia di una famiglia raccontata con lucida descrizione dal figlio. Uno spaccato del nostro passato recente che si proietta ancora con forza sul nostro oggi.
catia
ha scritto:
![]() Voto:
inserito: 16.07.2016 23:31
L'ho letto tutto d'un fiato! Nudo e crudo mi ha toccato il cuore come pensavo...! Conosco personalmente l'autore... ma solo piccoli dettagli della sua vita. Non nascondo che su alcune riflessioni ho rivisto le mie... e in alcuni passaggi mi sono spuntate lacrime di commozione. Un libro coraggioso! Complimenti!
Mia madre, così come mio padre, liquidava le mie marachelle di bambino con scariche di botte che mi lasciavano per morto. Per non farsi male alle mani sovente adoperava il cucchiaio di legno che, vi assicuro, faceva un male tremendo e, se alle volte si rompeva, lo ricomprava con i miei miseri soldarelli. Spesso i vicini di casa, impietositi dai miei pianti, suonavano il campanello per dirle di smetterla con tutte quelle botte. Lei rispondeva che si dovevano fare i fatti loro e che, come mi aveva fatto, così mi avrebbe ammazzato. A volte penso che, se avessi cinque centesimi per ogni legnata ricevuta in gioventù, sarei senz'altro una persona molto ricca. Ricordo un giorno in cui eravamo a tavola ed io mi trovavo al mio solito posto con mio padre alla mia sinistra e mia madre a destra, le spalle al balcone. Come al solito stavano litigando. Mia madre gli rimproverava di non essere abbastanza severo nella mia educazione. All'improvviso, e senza alcun motivo, mio padre mi mollò un manrovescio che mi fece letteralmente volare sul balcone, sedia compresa. Sbottò dicendo: adesso ti sembro abbastanza severo? Mi aveva colpito per compiacere mia madre. Si mise a sanguinarmi abbondantemente il naso. Era mezzogiorno. Alle sedici mi portarono all'ospedale, dove mi dovettero cauterizzare la vena. Naturalmente si erano raccomandati di non svelare il vero motivo del mio infortunio. Altro che telefono azzurro, che all'epoca non esisteva, neanche quello blu cobalto mi avrebbe salvato da quei due pazzi.
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Prima di essere pubblicato, dovrà essere approvato dalla redazione.
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