Una carrozza per la Badessa
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Una carrozza, come un'inconsueta macchina del tempo, attraversa i secoli testimoniando la vita tra la Torino sabatuda, prima capitale del Regno d'Italia, ed il Monferrato dei nobili Callori, attraverso le vicende e le parole del "cavallante" dei signori Conti, il cocchiere Giò Batta Gentile...
Quarta di copertinaVallét era l'uomo di scuderia del signor Bartolomeo. Aveva un nome, ma al sindaco francamente non interessava nè ricordarlo nè pronunciarlo, perchè raramente gli si rivolgeva in modo diretto e mai comunque aveva sentito la necessità di chiamarlo col suo nome di battesimo: per lui era semplicemente Vallét, il valletto, il servo in francese.Di età indefinibile, ma un ragazzone, Vallét era sceso dall'Alto Canavese qualche anno addietro per fare lo spazzacamino cercando lavoro nelle città, prima a Torino poi a Cuneo, ma gli inverni rigidi, la caligine respirata, il mangiare scarso ed inopportuno oltre alla pesante fatica, avevano subito aggravato il suo già avanzato stato di ipotiroidismo. Lo avevano trovato i suoi compagni di mestiere un giorno di gennaio, mezzo assiderato, privo di sensi, e da quel tempo, passando le notti nelle stalle di passaggio che i contadini lasciavano apposta aperte per dare asilo ai girovaghi, di parrocchia in cascina e di cascina in parrocchia, fra curati e mezzadri, tutti avevano cercato di fornirgli un'occupazione alla meno peggio e un riparo, finchè all'ennesima raccomandazione caritatevole era approdato alla villa del Gugia e qui si era fermato. Bravo era bravo, e pronto a darsi da fare per sdebitarsi della fiducia acquisita, ma era affetto da quel cretinismo che troppe persone purtroppo ancora colpiva su per le valli sperdute fra le montagne, dove difficilmente arrivava il sale, se ce n'era poco e come tale prezioso per conservare le carni; in quanto al pesce secco poi, o alle acciughe, neanche a parlarne. In tal modo la carenza cronica di iodio deformava a lungo andare i colli in orridi gozzi e ottundeva le menti. Biografia dell'autoreMarco Gentile nasce a Torino il 15 marzo 1972.Dai 2 ai 6 anni di età vive in Brasile dove i suoi genitori si sono trasferiti per lavoro. Qui inconsciamente la meraviglia per gli svariati animali esotici, ed il lussureggiamento dei colori, delle forme, dei profumi del Paese e dei costumi della gente, rappresentano nella sua infanzia l'imprinting di quelle che saranno le sue passione maturate nell'adulto: quella intima per le bestie - e la sua beatitudine fra di esse - e la stimolante curiosità etnografica. Rientrato in Italia trascorre la giovinezza tra la sua Città e la Valle d'Aosta dove fugge al primo momento libero, amando profondamente la montagna, e dove d'estate ha la fortuna di condividere ancora le tradizioni contadino-montanare locali, l'espressione della fede valligiana e la realtà bucolica del pascolo e degli alpeggi. Gli studi al Liceo Classico Valsalice coniugano alla sua vocazione naturalistica l'interesse per l'arte, la storia e le antichità. Laureatosi in Veterinaria presso l'Ateneo torinese è ad oggi, a tempo pieno, il medico degli animali, realizzando così il suo sogno da bambino. In questo suo romanzo, all'esordio, egli è riuscito a concentrare e ad esprimere le tre cifre che intimamente caratterizzano la sua vita: l'amore quasi empatico per gli animali, ed in particolare modo per il cane ed il cavallo, il gusto per la storia sabauda di Torino, e la ricerca delle sue origini familiari con una predisposizione d'animo affine alla "pietas" latina.
Vallét era l'uomo di scuderia del signor Bartolomeo. Aveva un nome, ma al sindaco francamente non interessava nè ricordarlo nè pronunciarlo, perchè raramente gli si rivolgeva in modo diretto e mai comunque aveva sentito la necessità di chiamarlo col suo nome di battesimo: per lui era semplicemente Vallét, il valletto, il servo in francese.
Di età indefinibile, ma un ragazzone, Vallét era sceso dall'Alto Canavese qualche anno addietro per fare lo spazzacamino cercando lavoro nelle città, prima a Torino poi a Cuneo, ma gli inverni rigidi, la caligine respirata, il mangiare scarso ed inopportuno oltre alla pesante fatica, avevano subito aggravato il suo già avanzato stato di ipotiroidismo. Lo avevano trovato i suoi compagni di mestiere un giorno di gennaio, mezzo assiderato, privo di sensi, e da quel tempo, passando le notti nelle stalle di passaggio che i contadini lasciavano apposta aperte per dare asilo ai girovaghi, di parrocchia in cascina e di cascina in parrocchia, fra curati e mezzadri, tutti avevano cercato di fornirgli un'occupazione alla meno peggio e un riparo, finchè all'ennesima raccomandazione caritatevole era approdato alla villa del Gugia e qui si era fermato. Bravo era bravo, e pronto a darsi da fare per sdebitarsi della fiducia acquisita, ma era affetto da quel cretinismo che troppe persone purtroppo ancora colpiva su per le valli sperdute fra le montagne, dove difficilmente arrivava il sale, se ce n'era poco e come tale prezioso per conservare le carni; in quanto al pesce secco poi, o alle acciughe, neanche a parlarne. In tal modo la carenza cronica di iodio deformava a lungo andare i colli in orridi gozzi e ottundeva le menti. |
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