A scuola da Maria Tarditi
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La scuola elementare può essere una esperienza meravigliosa. Oppure no.
Dipende dai compagni, dai maestri, dall'alunno, quache volta dalla parentela tra allievo e insegnante. Cosa succede se hai per maestra tua madre? Non sappiamo cosa ne pensasse Freud, ma di certo, leggendo questo libro, sappiamo cosa abbia provato per quattro anni Mariapia Peirano, scrittrice, che ha "subìto" Maria Tarditi, sua madre, come "mater et magistra". Un libro di ricordi, aneddoti, storia "particulare" che può aiutare a conoscere ancora meglio quella universale. Quarta di copertinaEro molto attenta alle lezioni della Signora Maestra, come e forse più dei miei compagni. Eppure un ostacolo, un antipatico ostacolo, lo trovai nella grammatica e precisamente nella storia della a con l'acca. Quando scrivevo per conto mio, non me ne facevo un problema: bastava che il carattere tracciato corrispondesse alla pronuncia. Invece, a scuola, ecco il tranello: qualche volta non bastava scrivere semplicemente la vocale, bisognava farla precedere da quell'odiosa lettera muta che non aveva alcun riscontro nella fonetica. E perchè, poi? Solo per mettere in croce gli scolari.Maria Tarditi, naturalmente, aveva pronto un metodo infallibile per farci capire e per evitarci gli errori. Bisognava volgere la frase all'imperfetto: se aveva ancora senso compiuto, ci voleva l'acca; altrimenti no. Vedevo e sentivo i miei compagni apprezzare molto quel metodo: durante il dettato erano sempre lì a coniugare all'imperfetto ..anche quando, secondo me, non era necessario. Mi davano fastidio. Erano troppo obbedienti, troppo supini. Per spirito di contraddizione, (mentalmente, s'intende) io mi rifiutai di applicare quel metodo. Però rischiavo di sbagliare e questo non potevo permettermelo. Fu così che per la prima ed unica volta chiesi aiuto a mia sorella. Lei mi disse che le frasi dovevo tradurle nel dialetto di Monesiglio, perchè lì - nel contesto del dialetto - la fonetica cambiava, eccome. Esempio: "Io ho portato il latte" si traduce "E i'eù purtò er lòcc". Invece la a preposizione non si modifica: "Sono andata a San Martino" rimane "E son andò a San Martìn". Misi subito in pratica il metodo. La Signora Maestra dettava: "Il cuoco ha messo a cuocere qualche coscia di tacchino ..." Un condensato di difficoltà. Ma io non avevo più problemi. Mentre i miei compagni si cimentavano bovinamente con l'"aveva..", io traducevo: "Er cheugh u ì' ò butò a cheuji.." ed ero a posto: la prima a richiedeva senz'altro l'acca, la seconda no. Il resto era un gioco da ragazzi. Indice testualePrologo1° ottobre 1961. Primo giorno di scuola "Signora Maestra" I canti Penna, inchiostro, calamaio.. Gli incarichi settimanali Santa Bernadetta "A con l'acca" I lavori manuali Lo studio I linguaggi. Il pianoforte Le lezioni di religione Le tecnologie moderne La neve Sissignora! La festa degli alberi Le uova Lampo Latt. La Fatima La piazza Monesiglio Il ritorno L'esame di quinta Cinquanta anni dopo Le provviste LE FIALE PER I CAPELLI I FIAMMIFERI DI LEGNO I CONTENITORI LA CARTA I PANNI IL CIBO La notte brava di papà Biografia dell'autoreMariapia Peirano è nata in Alta Val Tanaro nel 1955. Ha studiato e vissuto a Torino, dove fin da giovanissima ha lavorato come collaboratrice di farmacia privata.Nel 1986 si è trasferita nell'Astigiano dove è stata titolare di farmacia rurale per tredici anni. Nel 1999 è tornata a Torino, dove a tutt'oggi è titolare di farmacia privata. Ha pubblicato, tutti per l'Araba Fenice, nel 2012 Certi riguardi, nel 2013 Certe famiglie, nel 2014 A certe condizioni e nel 2015 Gli strani sogni della zia Maddalena.
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Mariapia Peirano
Ex scuole elementari , il 01.10.2016alle ore 17.30, Pievetta
Ero molto attenta alle lezioni della Signora Maestra, come e forse più dei miei compagni. Eppure un ostacolo, un antipatico ostacolo, lo trovai nella grammatica e precisamente nella storia della a con l'acca. Quando scrivevo per conto mio, non me ne facevo un problema: bastava che il carattere tracciato corrispondesse alla pronuncia. Invece, a scuola, ecco il tranello: qualche volta non bastava scrivere semplicemente la vocale, bisognava farla precedere da quell'odiosa lettera muta che non aveva alcun riscontro nella fonetica. E perchè, poi? Solo per mettere in croce gli scolari.
Maria Tarditi, naturalmente, aveva pronto un metodo infallibile per farci capire e per evitarci gli errori. Bisognava volgere la frase all'imperfetto: se aveva ancora senso compiuto, ci voleva l'acca; altrimenti no. Vedevo e sentivo i miei compagni apprezzare molto quel metodo: durante il dettato erano sempre lì a coniugare all'imperfetto ..anche quando, secondo me, non era necessario. Mi davano fastidio. Erano troppo obbedienti, troppo supini. Per spirito di contraddizione, (mentalmente, s'intende) io mi rifiutai di applicare quel metodo. Però rischiavo di sbagliare e questo non potevo permettermelo. Fu così che per la prima ed unica volta chiesi aiuto a mia sorella. Lei mi disse che le frasi dovevo tradurle nel dialetto di Monesiglio, perchè lì - nel contesto del dialetto - la fonetica cambiava, eccome. Esempio: "Io ho portato il latte" si traduce "E i'eù purtò er lòcc". Invece la a preposizione non si modifica: "Sono andata a San Martino" rimane "E son andò a San Martìn". Misi subito in pratica il metodo. La Signora Maestra dettava: "Il cuoco ha messo a cuocere qualche coscia di tacchino ..." Un condensato di difficoltà. Ma io non avevo più problemi. Mentre i miei compagni si cimentavano bovinamente con l'"aveva..", io traducevo: "Er cheugh u ì' ò butò a cheuji.." ed ero a posto: la prima a richiedeva senz'altro l'acca, la seconda no. Il resto era un gioco da ragazzi. |
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