Descrizione
Per anni il generale Zerrillo ha cercato ogni possibile traccia degli “uomini di Giarabub”. Per individuarli ha mobilitato gli uffici anagrafe dei comuni più remoti e, lo ripete egli stesso, le stazioni dei carabinieri, fonte indispensabile per ottenere informazioni altrimenti inarrivabili. Ecco, dunque, il suo metodo: ricerca dei documenti, rintraccio dei “testimoni”, dei loro eredi e conoscenti e l’esplorazione, diretta o indiretta, dei luoghi teatro delle vicende di “protagonisti” e “comparse” dei suoi saggi. I frutti del lungo lavoro sono consegnati al lettore con stile narrativo accattivante, fluido, arricchito da icasticità delle immagini e precisione dei termini tecnici quando si addentra nell’esame di reparti e di armi. L’indagine sugli “australiani” che presero parte all’assedio di Giarabub, compiuta specialmente dal capitano Cappone, è un “caso di scuola” di ricerca storica, meritevole di essere proposto quale modello in un convegno di studio sul rapporto tra indagine archivistica e responsabilità che lo storico deve sempre sentire verso la “verità”, nel rispetto delle fonti.
Il generale Zerrillo non nasconde che mentre compiva la ricerca e ne consegnava i risultati alle pagine del volume sentiva martellare in memoria questo o quel verso della Canzone di Giarabub.
Quello forse più assillante sono forse i conclusivi: “Sono morto per la mia terra, / ma la fine dell’Inghilterra/ incomincia da Giarabub”. Il crollo dell’impero coloniale italiano, osservò acutamente Winston Churchill, fece la differenza tra il prima e il dopo dell’Italia nella storia. Se nel 1940-1941 la guerra nell’Africa settentrionale avesse avuto altro corso, l’asse italo-germanico si sarebbe impadronito degli immensi imperi coloniali di Francia e Gran Bretagna con ripercussioni di dimensioni planetarie e di durata imprevedibile. Il mondo non sarebbe quale attualmente è. Lo percepirono agli autori della Canzone di Giarabub, come il regista e gli interpreti del film subito dedicato all’impresa, al pari dei primi giornalisti che intervistarono i reduci dall’assedio. Fu il caso di Gian Dal Po, pseudonimo di Gianni Brera, la cui facondia ebbi modo di apprezzare mentre, conversando di storia, spartivamo pane e pesci appena scottati su pietra arroventata in una delle trattorie della sua terra.
«Don Blengio, figuratevi, era uscito al tramonto a seppellire uno, e sarà stato a cinquecento metri al più e cadde la notte e i refoli del Ghibli lo investirono così rabbiosi da disorientarlo: tornò in accampamento tardissimo, spossato, affranto, e s’era già tutti convinti che il Ghibli avesse sepolto anche lui».
È nientemeno che Gianni Brera, che qui scrive con lo pseudonimo di Gian Dal Po, a parlarci di padre Giovanni Blengio, il giovane sacerdote che, con i gradi di tenente, è il cappellano militare del presidio nel deserto libico.
Brera, nel suo libro Giarabub. Racconto di uno che c’era (praticamente introvabile e rintracciato soltanto grazie alla cortesia della Biblioteca Braidense di Milano, con la collaborazione della Biblioteca comunale di Alba), raccoglie, nel 1944, i ricordi – allora freschissimi – di uno dei soldati portaferiti dell’ospedale da campo, rientrato in patria prima della fine della guerra per uno scambio di prigionieri: Terzo Cova. […]
[…]
Ma è ancora Gianni Brera, nel dar voce a Terzo Cova, a restituirci l’emozione di quell’arrivo, che Castagna, da buon militare, trattiene pudicamente nel suo libro:
«Il maggiore ci accoglie lietissimamente. Per poco non abbraccia il capitano Della Valle, direttore dell’ospedale: da tempo doveva aspettarci, pover’uomo, solo com’è con tante responsabilità sulle spalle, e senza i mezzi sanitari adeguati per affrontare un eventuale (e probabilissimo, prevedibilissimo) assedio.
I due ufficiali si fermano sulla pista a conversare: brevi attimi pieni di una cordialità unica. Il maggiore ha visto i nastrini di due medaglie sul petto del direttore: scoprono così, in breve, di aver combattuto insieme nella Grande Guerra. E davvero dan l’impressione di essersi incontrati in tutto, e subito, questi due uomini. Mi par di capirlo, benissimo, dal tono con cui il capitano Della Valle viene dai subalterni a riferire del colloquio. “È stato in trincea sul Carso – dice – perciò niente paura”!»
Il generale Zerrillo non nasconde che mentre compiva la ricerca e ne consegnava i risultati alle pagine del volume sentiva martellare in memoria questo o quel verso della Canzone di Giarabub.
Quello forse più assillante sono forse i conclusivi: “Sono morto per la mia terra, / ma la fine dell’Inghilterra/ incomincia da Giarabub”. Il crollo dell’impero coloniale italiano, osservò acutamente Winston Churchill, fece la differenza tra il prima e il dopo dell’Italia nella storia. Se nel 1940-1941 la guerra nell’Africa settentrionale avesse avuto altro corso, l’asse italo-germanico si sarebbe impadronito degli immensi imperi coloniali di Francia e Gran Bretagna con ripercussioni di dimensioni planetarie e di durata imprevedibile. Il mondo non sarebbe quale attualmente è. Lo percepirono agli autori della Canzone di Giarabub, come il regista e gli interpreti del film subito dedicato all’impresa, al pari dei primi giornalisti che intervistarono i reduci dall’assedio. Fu il caso di Gian Dal Po, pseudonimo di Gianni Brera, la cui facondia ebbi modo di apprezzare mentre, conversando di storia, spartivamo pane e pesci appena scottati su pietra arroventata in una delle trattorie della sua terra.
«Don Blengio, figuratevi, era uscito al tramonto a seppellire uno, e sarà stato a cinquecento metri al più e cadde la notte e i refoli del Ghibli lo investirono così rabbiosi da disorientarlo: tornò in accampamento tardissimo, spossato, affranto, e s’era già tutti convinti che il Ghibli avesse sepolto anche lui».
È nientemeno che Gianni Brera, che qui scrive con lo pseudonimo di Gian Dal Po, a parlarci di padre Giovanni Blengio, il giovane sacerdote che, con i gradi di tenente, è il cappellano militare del presidio nel deserto libico.
Brera, nel suo libro Giarabub. Racconto di uno che c’era (praticamente introvabile e rintracciato soltanto grazie alla cortesia della Biblioteca Braidense di Milano, con la collaborazione della Biblioteca comunale di Alba), raccoglie, nel 1944, i ricordi – allora freschissimi – di uno dei soldati portaferiti dell’ospedale da campo, rientrato in patria prima della fine della guerra per uno scambio di prigionieri: Terzo Cova. […]
[…]
Ma è ancora Gianni Brera, nel dar voce a Terzo Cova, a restituirci l’emozione di quell’arrivo, che Castagna, da buon militare, trattiene pudicamente nel suo libro:
«Il maggiore ci accoglie lietissimamente. Per poco non abbraccia il capitano Della Valle, direttore dell’ospedale: da tempo doveva aspettarci, pover’uomo, solo com’è con tante responsabilità sulle spalle, e senza i mezzi sanitari adeguati per affrontare un eventuale (e probabilissimo, prevedibilissimo) assedio.
I due ufficiali si fermano sulla pista a conversare: brevi attimi pieni di una cordialità unica. Il maggiore ha visto i nastrini di due medaglie sul petto del direttore: scoprono così, in breve, di aver combattuto insieme nella Grande Guerra. E davvero dan l’impressione di essersi incontrati in tutto, e subito, questi due uomini. Mi par di capirlo, benissimo, dal tono con cui il capitano Della Valle viene dai subalterni a riferire del colloquio. “È stato in trincea sul Carso – dice – perciò niente paura”!»